Il ben essere lavorativo e la riflessione etica nel lavoro
di Alberto Peretti
Occorre partire da una constatazione tanto semplice quanto trascurata: quando lavoriamo non produciamo solo beni o servizi, ma produciamo noi stessi, diamo forma ad un pezzo assai significativo della nostra e dell’altrui esistenza. Quale vita produce il nostro lavoro? Quale salute, individuale e collettiva?
Da molto, troppo tempo il lavoro ha subito un processo di reificazione che ha indotto molti lavoratori a percepirsi come semplici funzioni, le loro realizzazioni come mere cose, il mondo del lavoro come retto soltanto da rapporti meccanici e strumentali mediati dal denaro.
Nel lavoro privato di tensione esistenziale l’essere umano non cerca la propria completezza, il proprio appagamento, la propria fioritura. In una parola, non cerca di produrre per sé e per gli altri una vita buona, una vita degna di essere vissuta. Il lavoro separato dagli elementi che rendono appagante e completa la vita lavorativa ridotto ad azione produttiva finalizzata al raggiungimento di uno scopo esterno ad essa e traducibile in un assoluto valore monetario genera mal essere, individuale e collettivo.
Il ben essere delle persone può e deve essere cercato non solo dopo il tempo di lavoro, ma anche al suo interno, riconnettendo le dinamiche produttive con la ricerca di una vita buona. Una qualsiasi proposta di civiltà si misurerà non da quanto marginalizzerà il lavoro, ma da quanto saprà e riuscirà a metterlo al proprio centro. Occorre cioè cercare il ben essere sociale non attraverso il lavoro, considerato come semplice momento e strumento produttivo o di arricchimento materiale, ma nel lavoro, inteso e valorizzato in quanto dimensione di buona esistenza.
L’intervento muove dall’idea che la riflessione etica è una condizione di ben essere lavorativo, che la salute nel lavoro è anche là dove le persone possono responsabilmente valutare, scegliere seguire indirizzi etici di comportamento. La riflessione etica permettere di osservare il lavoro quotidiano da una prospettiva più profonda e più ampia, che non sia soltanto la performanza o l’interesse economico, piuttosto l’arricchimento della dimensione umana, etica, spirituale, relazionale.
Anche grazie alla riflessione etica è possibile dotare il lavoro e i sistemi organizzativi di una vitale ed energizzante inquietudine spirituale. Ricollegando chi lavora alle profondità del suo animo, rompendo con il senso di estraneità e disinteresse che mortifica l’esistenza di molti.
Deve essere chiaro che l’etica lavorativa non ha nulla ha che fare né con la semplice deontologia professionale né con il banale “buonismo”. E’ innegabile che un lavoro riannodato alla profondità dell’esistenza di coloro che lavorano è un lavoro all’insegna della vera efficacia e dell’autentica efficienza. La creazione di condizioni per una vita buona nel lavoro è, tra l’altro, la migliore garanzia di qualità delle prestazioni e di eccellenza del servizio.
Ingresso gratuito. Per info e iscrizioni: conferenceroom@fandis.it
di Alberto Peretti
Occorre partire da una constatazione tanto semplice quanto trascurata: quando lavoriamo non produciamo solo beni o servizi, ma produciamo noi stessi, diamo forma ad un pezzo assai significativo della nostra e dell’altrui esistenza. Quale vita produce il nostro lavoro? Quale salute, individuale e collettiva?
Da molto, troppo tempo il lavoro ha subito un processo di reificazione che ha indotto molti lavoratori a percepirsi come semplici funzioni, le loro realizzazioni come mere cose, il mondo del lavoro come retto soltanto da rapporti meccanici e strumentali mediati dal denaro.
Nel lavoro privato di tensione esistenziale l’essere umano non cerca la propria completezza, il proprio appagamento, la propria fioritura. In una parola, non cerca di produrre per sé e per gli altri una vita buona, una vita degna di essere vissuta. Il lavoro separato dagli elementi che rendono appagante e completa la vita lavorativa ridotto ad azione produttiva finalizzata al raggiungimento di uno scopo esterno ad essa e traducibile in un assoluto valore monetario genera mal essere, individuale e collettivo.
Il ben essere delle persone può e deve essere cercato non solo dopo il tempo di lavoro, ma anche al suo interno, riconnettendo le dinamiche produttive con la ricerca di una vita buona. Una qualsiasi proposta di civiltà si misurerà non da quanto marginalizzerà il lavoro, ma da quanto saprà e riuscirà a metterlo al proprio centro. Occorre cioè cercare il ben essere sociale non attraverso il lavoro, considerato come semplice momento e strumento produttivo o di arricchimento materiale, ma nel lavoro, inteso e valorizzato in quanto dimensione di buona esistenza.
L’intervento muove dall’idea che la riflessione etica è una condizione di ben essere lavorativo, che la salute nel lavoro è anche là dove le persone possono responsabilmente valutare, scegliere seguire indirizzi etici di comportamento. La riflessione etica permettere di osservare il lavoro quotidiano da una prospettiva più profonda e più ampia, che non sia soltanto la performanza o l’interesse economico, piuttosto l’arricchimento della dimensione umana, etica, spirituale, relazionale.
Anche grazie alla riflessione etica è possibile dotare il lavoro e i sistemi organizzativi di una vitale ed energizzante inquietudine spirituale. Ricollegando chi lavora alle profondità del suo animo, rompendo con il senso di estraneità e disinteresse che mortifica l’esistenza di molti.
Deve essere chiaro che l’etica lavorativa non ha nulla ha che fare né con la semplice deontologia professionale né con il banale “buonismo”. E’ innegabile che un lavoro riannodato alla profondità dell’esistenza di coloro che lavorano è un lavoro all’insegna della vera efficacia e dell’autentica efficienza. La creazione di condizioni per una vita buona nel lavoro è, tra l’altro, la migliore garanzia di qualità delle prestazioni e di eccellenza del servizio.
Ingresso gratuito. Per info e iscrizioni: conferenceroom@fandis.it
12 commenti:
Gentile dottoressa,
leggo con piacere i suoi interventi.
Sono Mario, un cinquantenne funzionario che lavora in una PMI del nord ovest. Le scrivo queste sentite righe per esporle il mio pensiero, sa ne ho viste tante e spero proprio di fare cosa gradita dandole un contributo. Inizio da questo articolo. Se ho colto il significato, l'autore intende dire che il benessere del lavoratore cresce qualora esso concepisca il proprio lavoro come una parte di se e non come mero mezzo per portare valore monetario. Non posso che associarmi a questo. L'applicazione che, tristemente, osservo nelle nostre aziende però è questa: abbiamo della buona forza lavoro alla quale tronchiamo subito le gampe. Come? In vari modi. Primo : Capi reparto che impongono il proprio volere senza sentire il bisogno di ascoltare i contributi ( sarebbe meglio che avessero l'umiltà di chiederli, non trova? ) spontanei dei propri sottoposti, anzi in taluni casi scoraggiano senza tanti giri di parole le iniziative propositive; Secondo : Colleghi o superiori diretti che, per bramosia di potere ( certe volte malattia mentale ) lavorano troncando le dinamiche del lavoro di gruppo ( ne ho conosciuto uno, pur validissimo, che è riuscito a fare scappare mezzo reparto in sei mesi perchè lavorava a casa il w.e. per conto proprio in modo da arrivare al lunedì in sede di riunione di gruppo, col risultato già pronto e indiscutibile ); Terzo : Quadri aziendali fedifraghi, orditori di trame, dediti alla menzogna e manipolazione dei proprietari ( veri campioni dell'adulazione che trovavano terreno fertile in proprietari giovani, inesperti che usavano aizzandoli contro collaboratori onesti che dicevan la verità, anche se dolorosa, ai giovani ). Ecco queste son le tristi applicazioni che ho trovato.
Gentile Mario,
è con piacere che ho letto il suo intervento. Lei ha compreso bene l'intento del Prof. Peretti e mi rendo conto che si tratta di una sfida ardua e sicuramente troppo poco condivisa dal mondo organizzativo. Il suo non vuole però essere certo uno sterile invito ai 'lavoratori' affinchè imparino quanto il 'lavoro rende liberi'- giusto per citare un'agghiacciante ossimoro nazista - lasciando a loro la responsabilità di scegliere se godere del proprio tempo lavorativo o di soffrirne.... L'invito di Peretti è piuttosto all'Umanità intera, affinchè costruisca insieme il luogo del lavoro umanizzante. La felicità non può che essere frutto dell'incontro di intenti positivi che vogliano davvero trasformare la cultura aziendale nella Cultura del Servizio e del Rispetto reciproco, affinchè tutti i membri di un'organizzazione possano vedere se stessi come suoi 'cittadini'.
Anche se forse potrà pensare il contrario, io non sono un illusa Mario, so che il mondo intorno a me ruota intorno a ben altre 'leggi' -quelle del Potere, del Profitto a tutti i costi, del 'Mors tua vita mea', quelle dell'Egoismo e dell'Ignavia per esempio - ma esistono anche esempi silenziosi di chi crede fermamente si possa lavorare in altro modo: ecco, io guardo a quegli esempi con speranza e nel mio piccolissimo cerco di parlare della bellezza e della ricchezza che c'è dietro a queste fonti d'ispirazione...forse contagerò qualcuno, chi può dirlo, o forse - e questo accade già - le mie parole attrarranno persone che la pensano come me e si sentono isolate e le nostre voci insieme diventeranno un coro e qualcuno proverà ad ascoltarci con più interesse.
Di fronte a storie come quella che ha testimoniato, avrei potuto sventolare la mia indignazione (perchè io sono profondamente indignata, mi creda), ma non è nel mio stile, non mi riesce di gridare e protestare in piazza e poi ci sono già tante persone e diversi blog che svolgono benissimo questo ruolo. Ho scelto di descrivere invece il mondo che vorrei, che nel mio ruolo e con la mia professionalità sto cercando di contribuire a creare. Il mio vuole essere un blog in positivo, per mettere in rete progetti e proposte di miglioramento. Per fare e per creare opportunità di evoluzione culturale al di sopra di gerarchie e schieramenti politici. Ecco perchè non mi sentirete gridare...ma sono qui ad ascoltare anche le vostre grida. Non vi lascio soli.
Errata corrige: chiedo scusa ai lettori. Ovviamente avrei dovuto scrivere 'un agghiacciante ossimoro..'.
Gentile dottoressa, sono Mario. Ho letto con piacere la sua risposta. Piacere doppio perchè mi conferma l'impressione avuta nel leggere i suoi precedenti articoli: lei è una manager molto attenta e sensibile agli aspetti profondamente umani del rapporto di lavoro e, sono convinto, nella sua azienda i tre punti che le ho esposto non si verificano ora e non si verificheranno nel futuro. Un breve 'ritorno' sul mio post. Dei tre punti di cui le ho parlato, quello secondo me più pericoloso e deleterio per una organizzazione è il terzo. La presenza di collaboratori fedifraghi è un pericolo subdolo, essendo che se tali persone son giunte in alto loco, è perchè sono in possesso di capacità seduttive micidiali. Guai al manager che non se ne avvede. Belle parole eh? Ma, secondo lei, come è possibile capire se un collaboratore, magari ereditato da una gestione precedente, è un fedifrago seduttore? Sa, è una domanda che mi pongo spesso. Talvolta penso che sia meglio avere un collaboratore di capacità professionali leggermente inferiori a quanto necessario che avere un genio disonesto. I danni che può fare all'organizzazione son tremendi. Non ultimo la distruzione di carriere altrui con triplice danno per l'azienda, i colleghi e non ultimo, il povero collega vittima di turno. In tanti anni mi son fatto un piccolo schema che, non sempre purtroppo, mi aiuta a inquadrare questi soggetti subdoli. Diffido innanzi tutto di quelli che parlan male degli altri sempre e comunque. Mi destano sospetto quelli che concordano con me ( le dirò che invece apprezzo quelli che, naturalmente con garbo, mi fan notare i miei errori ) e mi diverto a dir assurdità per sondare i primi due criteri. Altro campanello d'allarme è rappresentato da quelli che son un continuo spot elettorale di loro stessi ( io ho fatto, ho detto, come lo faccio io...bla bla bla ) perchè se passan tanto tempo a parlare sicuramente ne investono poco a fare e, dato che l'essere umano mette il massimo sforzo in ciò che gli porta vantaggio, se parlan per 24 ore è chiaro che vogliono sedurre. Comunque, oltre al fiuto, ritengo possa venire in aiuto a noi manager un buon sistema di valutazione delle prestazioni, così da smascherare gli accaparratori di glorie altrui.
Per il momento la saluto. Questi post sono molto stimolanti e mi sembra sia possibile ( finalmente ) parlare con una persona che da e trova soddisfazione nell'argomentare. Buona lettura. Mario
Ancora benvenuto, Mario.
Concordo assolutamente sulla pericolosità del genere 'seduttore' e ho pagato con anni di sofferenza psicologica l'averne sposato uno: intelligente oltre la media, spirito artistico, bello, giramondo e poliglotta, ma anche egoista, amorale e manipolatore...Aveva tutte le caratteristiche che ha elencato nel suo commento, ma ero giovane e ci sono 'cascata'. Di gente così me ne è passata davanti anche nella mia vita professionale: alcuni ho potuto scansarli, altri li ho dovuti assumere mio malgrado (ma sono presto stati eliminati dall'organizzazione stessa come corpi estranei), di un paio devo elogiare le notevoli doti attoriali che mi hanno ingannato fino all'ultimo.
Una volta, nel corso di un mio primo stage in una multinazionale americana, uno dei pochi Nativi Americani che è riuscito ad integrarsi tra i bianchi, tanto bene da diventare uno dei Vicepresidenti della società per cui lavorava, mi disse che per scegliere i propri collaboratori e i propri partners commerciali è necessario seguire la strada del cuore: "Scegli sempre una buona persona, la riconoscerai dallo sguardo limpido e dal sorriso sincero, dai modi rispettosi e dalle domande che farà, che saranno sempre più delle risposte che saprà dare", disse, " e giudicalo più dai suoi silenzi che in base alle sue parole". Devo dire che seguo sempre il suo consiglio e quando ho trovato persone così, non ne sono mai rimasta delusa, perciò sempre più mi concentro sul valore della persona come tale, che sulle sue competenze, che nel tempo e l'impegno si possono comunque costruire.
A presto,
Marta
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Felicità e profitti
di Marco de Santis (www.marcodesantis.com)
Mi sono chiesto quale rapporto ci fosse fra la felicità delle persone e i profitti delle aziende. Ho individuato due presupposti dai quali partire:
- le persone felici sono maggiormente produttive e aumentano il livello della qualità;
- favorire l’aumento della felicità dei dipendenti significa aumentare le possibilità di profitto delle aziende.
Nelle grandi aziende si parla spesso di felicità dei dipendenti come chiave per aumentare la produttività dell’impresa. Il dibattito e i progetti realizzati testimoniano l’attenzione verso le persone, la cui soddisfazione sul lavoro inizia ad essere elemento importante dei processi produttivi.
I primi tentativi di favorire la felicità dei dipendenti sono stati indirizzati all’aumento dei benefici e dei servizi offerti dall’impresa: mense aziendali confortevoli, biliardini, campi di pallacanestro, servizio di baby sitting, palestre interne fino ad arrivare ai cesti di frutta messi a disposizione all’entrata. Si tratta di cose cose utili al miglioramento della produttività e senza dubbio influiscono sullo stato d’animo di un dipendente che percepisce direttamente l’attenzione della propria
azienda verso le condizioni di lavoro. Ma tutto questo non basta e le aziende smettono di aumentare i servizi offerti quando scoprono che i miglioramenti ottenuti non coprono i costi sostenuti.
Parafrasando Sant’Agostino che sul tempo diceva: “Se non me lo chiedono, io so benissimo che cos’è il tempo; ma se me lo chiedono… mi sembra di non saperlo e di non riuscire a spiegarlo”, posso dire che pur riuscendo ad intuire il concetto di felicità, non riesco a spiegarlo. Ciononostante sono in grado di distinguere una persona felice da una che non lo è. Quest’ultima considerazione ha spostato la mia riflessione dal concetto astratto di felicità alla concretezza di “persona felice”. Credo che una persona sia felice di lavorare quando:
- riesce ad esprimere pienamente se stessa;
- svolge i propri compiti riuscendo a raggiungere gli obiettivi;
- partecipa attivamente e in maniera insostituibile ai successi dell’impresa.
Se questi sono gli aspetti visibili di una persona felice sul lavoro, quali sono le caratteristiche di un’azienda che favorisce la loro attuazione? La congiuntura economica non è delle migliori per questo non è il momento di chiedere alle aziende investimenti in benefit di varia natura che oltre a costituire una voce di costo non garantiscono in maniera direttamente proporzionale l’aumento del benessere dei dipendenti ne la correlazione con l’aumento dei profitti. Con queste premesse è possibile individuare una serie di azioni che non rappresentino nuovi costi ma cambiamenti in termini di comportamenti e capacità. Nelle mia attività da formatore, consulente e coach posso suggerire un elenco forse parziale, composto da elementi necessari ma non sufficienti:
- comunicazione interna strutturata ed efficiente;
- compiti assegnati chiari e obiettivi definiti;
- abilità di feedback sviluppate nel personale di direzione;
- definizione e condivisione della visione, della missione e dei valori aziendali;
- partecipazione creativa al cambiamento.
In sintesi cose reali e diverse dalla virtualità di Second Life
Gli aspetti elencati sono tutti realizzabili attraverso l’implementazione di competenze direzionali, organizzative e di quelle riguardanti la comunicazione interpersonali. Questo tipo di competenze può essere implementato con azioni formative mirate e progettate esclusivamente nell’ambiente specifico di ogni azienda. Inoltre inserendo interventi di coaching all’interno di un percorso formativo, ci si orienta verso un approccio consulenziale a 360 gradi, a patto che sia funzionale alle peculiarità dell’azienda che lo richiede. In altre parole è importante evitare che modelli sviluppati negli Stati Uniti siano forzatamente adattati in contesti europei o viceversa. Lo sforzo della progettazione formativa è necessario, per questo motivo ogni intervento deve essere progettato ex novo. Inoltre gli interventi formativi, promossi senza interventi sull’organizzazione studiati caso per caso, sono pressoché nulli.
L’attenzione alla felicità non nasce soltanto da valori etici ma è sostenuta da un preciso tornaconto economico. Una persona felice ha maggiori capacità d’attenzione e concentrazione sul lavoro, riduce i tempi d’esecuzione delle attività ed esercita spontaneamente un controllo qualitativo sul lavoro che svolge. La felicità è concretamente il terreno migliore sul quale far crescere la creatività che è la chiave differenziale rispetto ai nuovi competitori che nei paesi emergenti, sfruttano il minor costo del lavoro per replicare prodotti creati e congegnati da altri. La parte ricca del mondo non può ridurre i costi produttivi tanto meno aumentare i prezzi dei prodotti. Per questo l’unica possibilità è utilizzare la ricchezza del patrimonio umano di cui dispongono le aziende per produrre beni e servizi con valori non replicabili da nessun concorrente. L’unico bene in nessun modo replicabile è una persona felice e tutto ciò che da questo consegue. Possiamo smetterla con i cesti di frutta all’ingresso: ora è possibile promuovere una nuova cultura aziendale che riporti la persona e le sue capacità nel cuore del lavoro.
Grazie Emiliano per il tuo contributo.
E' indubbio che un dipendente felice sia anche un dipendente più produttivo e che dunque la felicità possa essere in qualche modo anche 'monetizzabile' dall'imprenditore, tuttavia mi preme qui sottolineare l'importanza dell'intenzione a monte della ricerca della felicità in azienda.
Se i genitori agiscono in modo amorevole con i figli e si adoperano affinché siano felici nella speranza che un giorno ne avranno essi stessi un beneficio in forza di un 'debito' che si è instaurato nel tempo all'interno della relazione, allora si verifica un vero e proprio 'ricatto affettivo' verso i figli, che rischiano di non sentirsi mai sufficientemente riconoscenti o all'altezza delle aspettative dei genitori. Su questo concetto si fonda ad esempio gran parte della coscienza sociale giapponese. Funziona, ma può creare depressione e rifiuto.
La creazione di un contesto davvero 'felice' richiede dunque necessariamente il dono disinteressato e gratuito. L'incremento di produttività verrà come naturale conseguenza, ma sarebbe meglio non diventasse l'obiettivo dei nostri sforzi.
E pur tuttavia, convengo che è certo meglio che un imprenditore/manager si sforzi di rendere i propri collaboratori felici nella speranza che possano rendere di più, piuttosto che non ci provi neppure!
Grazie Marta per la conferenza di ieri sera, è stata veramente interessante. Tornando a casa ho pensato, pensato... Sto pensando tutt'ora, a differenza di ieri però sono meno ottimista, più rassegnata. In questo periodo il mio entusiasmo, la mia voglia di fare si sta scontrando con una realtà apatica, faccio parte di un'associazione il cui scopo è prevenire il disagio, aiutare le persone a trovare il proprio ben-essere, a confrontarsi con altre persone. Ma ciò non avviene. C'è partecipazione, anche se scarsa, ma non c'è risposta, non c'è entusiasmo, poca assunzione di responsabilità se non addirittura assente. La domanda che mi ritorna più spesso in mente in questo periodo è: ma le persone vogliono veramente stare bene? Condivido l'idea che il lavoro deve diventare un luogo dove si vive una buona vita, ma siamo sicuri che si voglia vivere una buona vita? Credo che stiamo vivendo un periodo di forte disagio e non solo per la crisi economica, ma non vedo nessuno che decida di guardarsi dentro, che sia consapevole che il cambiamento deve partire da sè e così incolpiamo ciò che sta fuori, in primis il lavoro, e non capiamo (e non vogliamo vedere) che il problema invece è da un'altra parte. In una realtà così, Politiche del lavoro etiche posso essere veramente efficaci?
Alessandra,
quanti temi scottanti hai sollevato!
Mi focalizzo però su questo, che mi sembra cruciale: ' credo che stiamo vivendo un periodo di forte disagio e non solo per la crisi economica...', dici. E' proprio questo il punto, l'incipit e la conclusione della conferenza di ieri: la vera crisi è quella di un'intera civiltà sull'orlo del declino. E' il momento di una rivoluzione 'copernicana', come l'ha ben definita Peretti. E' il momento di aprire gli occhi e uscire dall'incubo in cui viviamo da 2500 anni! E' il momento di imparare a vivere pienamente e smettere di 'consumare' le nostre giornate in una sorta di apnea spirituale. E questo può accadere solo se partiamo da noi stessi e ci ricolleghiamo al mondo, al Tutto. Se invece di separare, allontanare, isolare e fuggire, impariamo ad accogliere, a stare 'in' e 'con', a generare Armonia e a ri-generare noi stessi...
Un abbraccio,
Marta
Ancora una volta le parole di Alberto Peretti mi hanno fatto riflettere sull'espressione che usiamo, senza pensarci, ogni volta che usciamo di casa alla mattina:"Vado a lavorare", o alla sera quando torniamo:"Per oggi ho finito di lavorare!". E prima di uscire cosa succede, e dopo, quando sono a casa, che cosa faccio? Non sono sempre io, la stessa "persona"? Forse sul posto di lavoro divento qualcun'altro, o peggio qualcos'altro? Oppure al lavoro porto la mia casa e a casa porto il mio lavoro? Io porto me stesso ovunque vada, perchè ovunque io sono, ovunque io vivo, con le mie difficoltà e fatiche, ma anche con il mio entusiasmo,le speranze,le gioie; e,soprattutto, anche quando lavoro incontro gli altri con le loro cose buone e le loro cose difficili, posso ascoltare ed essere ascoltato, insegnare ed imparare, donare e ricevere. Giovedì mattina, al lavoro, ho raccontato che avevo avuto una nottataccia senza sonno; mi sono bastati pochi secondi, non ho rubato tempo al lavoro, anzi ho ricevuto ascolto dagli altri; all'ora di pranzo ho portato a casa e ho raccontato ai miei figli le difficoltà incontrate al mattino; anche qui pochi minuti, ma non ho rubato tempo alla mia vita di famiglia, anzi mi sono sentita ascoltata e ho dato qualcosa di me.
Tutto fa parte di tutto.Naturalmente non è sempre così semplice, ma un piccolo passo ogni giorno forse può aiutarci a far diventare tutto ciò un atteggiamento naturale di vita.
Grazie, ancora una volta,per avermi dato un buon momento da aggiungere alla mia vita.
Riprendo il tema del lavoro e della felicità, Credo sia stato toccato un tasto molto sensibile e che mi sta molto a cuore. Siamo in molti a essere soffocati dal lavoro e forse anche dal pensiero del lavoro.
Quindi, ricapitolando, "Il denaro fa la felicità?" si parla di "un effetto indiretto negativo del reddito sulla felicità". Ciò avviene perché l'aumento del reddito ha "un impatto negativo sul tempo speso in beni relazionali, il quale riduce a sua volta l'effetto positivo di questi [cioè del poco tempo speso in relazioni personali] sulla felicità. In parole povere: in Occidente guadagniamo di più perché lavoriamo di più, ma proprio per questo non abbiamo tempo per noi stessi e per gli altri. E il cerchio è chiuso.
L'altro tema che vorrei tirare fuori è quello del rapporto tra felicità e lavoro. Si parte dalla constatazione che "nel vecchio sistema il lavoro materiale e individuale era particolarmente spersonalizzante penoso...". Invece "nel mondo della flessibilità e della continua innovaziobne di processi e di prodotti il lavoro diventa certamente più creativo, ma richiede anche uno sforzo intellettuale di gran lunga superiore, unito a una capacità di lavoro in team...Nel vecchio modello non era necessario per l'impresa conquistare mente e cuore del lavoratore...Nel nuovo modello invece solo una forte motivazione intrinseca può garantire quel surplus di applicazione e di sforzo utili a far scaturire l'idea innovativa e a garantire all'impresa il salto di qualità e di produttività!. Quindi, le imprese hanno ora "l'esigenza di conciliare felicità e produttività (ovvero di conquistare il cuore e la mente dei dipendenti). Non sempre, va detto, ci riescono.
I cosiddetti "talenti" diventano superstar, più pagati e coccolati dalle imprese, la necessità di competere con mercati del lavoro molto più flessibili, dove il costo del lavoro è notevolmente più basso, mette a rischio le tutele e la stabilità dei lavoratori non specializzati dei Paesi più industrializzati, riducendo la loro felicità sul lavoro. E questo dà conto della contraddizione insanabile tra una flessibilità "buona", ricca di opportunità, e la sensazione di nuove e più forti costrizioni che si fa strada tra tanti lavoratori contemporanei, specie se giovani.
Vi invito ed in particolar modo invito lei, Mario, visto la particolarità dei temi sollevati, a partecipare ad una prossima conferenza tenuta dal Prof Rebuffo sul Rinascimento e l'insegnamento che i managers ed imprenditori moderni potrebbero trarne per la gestione e l'organizzazione d'Impresa.
8 ottobre - Borgo ticino.
Seguite gli aggiornamenti!
Marta
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